Wim Wenders celebra Pina Bausch

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Wim Wenders celebra Pina Bausch

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L’avvento del 3D rappresenta sicuramente la più grande innovazione nel cinema degli ultimi anni. I fratelli Lumière avevano del resto inaugurato il cinema stesso con una sperimentazione sulla tecnica 3D, nel cortometraggio del 1895 “L’arrivo di un treno alla Stazione di La Ciotat”, e dovettero aspettare solamente, si fa per dire, 27 anni prima di portare a compimento il loro primo lungometraggio con quella stessa tecnica, “La forza dell’amore”…..

Nel 1927 il pioniere francese Abel Gance inserì sequenze in 3D nel film muto “Napoléon”, mentre il primo film stereografico e sonoro fu l’italiano “Nozze vagabonde”, del 1936, prodotto dalla “Società Italiana Stereo-cinematografica”. Tralasciando la fortuna alterna degli anni successivi, è pur vero che solo con l’arrivo di Avatar, firmato James Cameron, è iniziata per noi una nuova era del cinema. Il 3D è rinato e con esso le tecniche e il linguaggio della settima arte. Lo spettatore indossa oggi occhiali futuristici, come se stesse assistendo ad un’eclisse totale di sole. La curiosità di toglierli per un attimo, comunque, non acceca lo spettatore: molto spesso, al contrario, gli procura un po’ di sollievo…La tecnologia che ruota attorno al 3D, infatti, è ancora tutt’altro che facile da maneggiare. I personaggi umani di Avatar, per esempio, sono decisamente poco definiti, sembrano sfarfallare continuamente, al contrario delle sequenze di animazione che offrono un risultato fantastico. Il 3D non perdona. Il più piccolo errore, una messa a fuoco incerta o un movimento di macchina poco stabile, non è soltanto un errore doppio (per via delle due camere utilizzate in contemporanea per questa tecnica di ripresa), bensì quadruplo, a causa di un dettaglio tecnico non trascurabile. Le proiezioni in sala, infatti, secondo lo standard adottato universalmente a livello commerciale, “corrono” a 24 fotogrammi al secondo. Tutte le produzioni 2D adottano, ad oggi, questo formato anche in fase di ripresa, ottenendo risultati ottimali in tutti gli stadi di vita del loro film. La stessa cosa non vale per il 3D. Il formato ideale di ripresa e di proiezione è in questo caso il 50 fotogrammi al secondo: raddoppiando la scansione dell’immagine, esso permette, infatti, il quantitativo di informazioni al secondo sufficiente per una resa ottimale dell’immagine stereoscopica. Tradotto in termini di visione: naturalezza del movimento.

James Cameron ha provato a far correre il suo film a 50fps, ma le commissioni incaricate degli standard in America non glielo hanno permesso. Quell’idea avrebbe messo fuori uso i proiettori delle sale cinematografiche di tutto il mondo. Da Avatar ad oggi, comunque, la tecnologia ha fatto passi da gigante. Molte incertezze di allora sono ormai facilmente superabili. La questione artistica però rimane: abbiamo realmente bisogno del 3D? Cosa aggiunge al nostro film? È davvero il futuro? Avremo sempre bisogno di occhiali speciali per la stereo-visione? E così via… Walter Murch, tre volte Oscar e uno dei più rispettati montatori e sound designer del cinema moderno, ha detto al riguardo: «Non funziona per il nostro cervello e non funzionerà mai. È come battere una mano sulla testa e, contemporaneamente, farne girare una sullo stomaco. Difficile. I film 3D ricordano continuamente allo spettatore di trovarsi in un certo rapporto “prospettivo” con l’immagine. Un trucco alla Brecht. D’altro canto, la trama di un film avvincente proietta di per sé lo spettatore “nell’immagine”, lo conduce immediatamente nello spazio-non spazio del sogno. Una buona storia ti offre tante dimensioni quante non è possibile, normalmente, nemmeno immaginare. Per concludere: buio, piccolo, stroboscopico, fa venire il mal di testa, alienante. E costoso. La domanda è: quanto ci vorrà prima di capirlo e di mettere il 3D finalmente da parte?»

Nonostante le critiche di Walter Murch, sono sempre di più i registi che credono profondamente nel 3D e che addirittura puntano su di esso come unica “possibilità di visione” del futuro.

Wim Wenders ha dovuto aspettare 20 anni per trovare il mezzo visivo che gli avrebbe permesso di ritrarre le coreografie di Pina Bausch. Il 3D era l’unico linguaggio possibile. Per lungo tempo aveva dovuto rifiutare la proposta di Pina, perché non riteneva di avere accesso alla complessità della sua danza con la tecnologia cinematografica tradizionale. Quando vide il primo film digitale a Cannes, “U2 in 3D”, fu come trovare la soluzione al dilemma. Il 3D gli avrebbe permesso di avventurarsi nello spazio e nel reame dei danzatori, di essere “lì” a testimoniare il cuore e l’essenza del lavoro di Pina, in una maniera finalmente appropriata. Wim Wenders: «Penso che la danza e il 3D siano fatti l’uno per l’altra. Non soltanto vieni portato “quasi” fisicamente sul palco – cosa che una macchina da presa tradizionale riesce anche a fare – ma sei soprattutto introdotto alla reale presenza dei danzatori, condividi l’aura di ciascuno di esso: a quel punto perfino il semplice sollevarsi di un braccio diventa una esperienza completamente “altra” rispetto allo schermo 2D. Il coinvolgimento era, del resto, fondamentale per poter sviluppare narrativamente tutte le emozioni che ho provato ogni singola volta che ho assistito ad uno spettacolo di Pina. Non ho mai visto niente di più emozionale nella mia vita. Nessun film, nessuno spettacolo teatrale, niente ha mai raggiunto quello che io e tutti noi abbiamo provato assistendo ad un pezzo di Pina. Per questo era necessario poter disporre di questa nuova tecnologia: erano fatti l’uno per l’altra.» Nel giugno del 2009, poco prima di partire con la produzione del film, Pina Bausch muore improvvisamente, provocando un grande shock in tutti quanti. Wim Wenders non se la sente di andare avanti. Wim Wenders: «Soltanto settimane e settimane dopo, furono i danzatori a dirmi: Wim, eseguiremo tutti i pezzi che voi due avevate messo in programma, uno per uno, e sarà un dannato peccato se tu non li potrai filmare, perché lo sguardo di Pina è sempre su di noi. Tu le devi questo. Lei vorrebbe che tu facessi il film. Noi lo vogliamo. Così siamo tornati e abbiamo deciso di fare un altro film. Non un film su Pina, ma un film per Pina. Ed insieme con i suoi danzatori e danzatrici ci siamo immersi nella realizzazione di questo lavoro, che per forza di cose è adesso molto più di un omaggio, oltre che il nostro modo di superare quel grande trauma, per imparare a convivere con il fatto di non essere riusciti a salutarla davvero. Il film è diventato il mezzo per ciascuno di noi di dirle arrivederci.»

Wim Wenders ha dichiarato che, dopo questa esperienza, sarà difficile tornare al 2D: una volta che hai fatto a pezzi la barriera dello schermo è davvero complicato rimetterli tutti a posto.

La danza di Pina Bausch è eternamente bella, coinvolgente, moderna, senza tempo.

Se hai avuto la fortuna di assistere ad una sua piece, non puoi più dimenticarla. Con il film PINA, la sua magica arte è adesso accessibile a tutti coloro che non si sono mai recati a Wuppertal o dove finora è andata in scena. La sua danza è stata preservata per sempre. Citando Pina: “Danzate, danzate. Se no, siamo perduti.”

Sarebbe il caso che Walter Murch desse un’occhiata a PINA (che arriva presto anche in Italia, distribuita da BIM)

Hella Wenders

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