Steven Cohen: lo stupore dell’identità, paradossalmente se stessi.

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Steven Cohen: lo stupore dell’identità, paradossalmente se stessi.

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Quando parliamo di Performance non possiamo che parlare di uno straordinario artista che risponde al nome di Steven Cohen. Nato nel ’62 a Johannesburg, Steven Cohen, si è formato nel suo paese natale dedicandosi agli studi di arte, oltreché aver studiato psicologia e letteratura. Ha proseguito i suoi studi nella scuola d’arte di Cape Town. Per oltre vent’anni si è dedicato alla realizzazione di opere visive, esibite ampiamente in numerosi musei e collezioni internazionali. Al contempo, ha sviluppato un suo personale percorso artistico che lo ha visto presentare performance dalla forte identità e valenza provocatrice in differenti spazi e contesti, quali teatri, musei, gallerie d’arte e, inoltre, luoghi insoliti (taxi, ippodromi, centri commerciali, mostre canine, raduni politici, ecc.) dove non invitato, appare inaspettatamente in travestimenti provocatori e dissacranti, facendosi spesso cacciare via.

Cohen è dunque la figura prototipo del performer nella concezione moderna di colui che sta nei territori limite dei linguaggi e dei codici espressivi. Paradossale, militante e rivendicativo, la sua è una trasgressione costante e continua dei codici, che si dipana in uno spazio sempre diverso, spesso di confine, spesso estremo (come le periferie degradate delle megalopoli sudafricane). Il suo agire artistico si fa simbolicamente atto di rottura trasgressivo delle cristallizzate certezze della società contemporanea: il consenso sociale, i codici di comportamento oltreché della comunicazione. Esaltare le contraddizioni e nutrirsene: questo il fil rouge che lega la sua produzione artistica. C’è un certo gusto pop anche nella sua costante ricerca del travestimento, estremo, a tratti dark, volutamente kitsch e “volgarmente” spinto agli estremi dell’esibizionismo anche sessuale.

La sua è una scelta estetica ed etica, una provocazione politica ed esistenziale che ha come strumento il suo corpo. La sua è una vera e propria arte vivente che si accosta sia alla scultura che alla danza. La sua poetica performativa è una costante ricerca sui mezzi di espressione legati al tema dell’identità. Chi meglio di lui, che si definisce “ebreo, omosessuale e bianco in sud Africa”, può indagare questo tema? Ecco che ebraicità, omosessualità, razzismo e identità etnica divengono spunti e stimoli per ridefinire un’estetica della performance che spesso si fa stupore.

In “The cradle of humankind”, una delle sue creazioni più recenti, il tema è quello del ritorno all’Africa, alle sue origini ma anche un’ampia riflessione sulla razza umana. Cohen porta indietro il nastro dell’evoluzione umana e lo ripercorre, con la lente d’ingrandimento della sua arte, servendosi di una tavolozza d’artista composta da video girati in Africa del Sud e sue installazioni plastiche. Riavvolge il nastro che racconta l’umanità, la razza, dalla bestialità selvaggia alla barbarie, alla mercificazione degli esseri umani, alla miseria e crudeltà provata e subita da esseri umani da altri esseri umani. Ma tutto questo attinge alla forza della sua estetica artistica, vale a dire la grande capacità nella ricerca di unire poesia e politica, creando figure che, tra provocazione e una sorta di irrispettosa liturgia del travestimento e dello spazio, raggiungono una grande profondità espressiva. Oltre allo stesso Cohen, in questa creazione, trova posto Nomsa, la sua tata novantenne, presenza reale che, nella sua nudità, unisce pudore, anzianità, freschezza e malizia. E il tema della sessualità è un refrain ricorrente nella produzione di Cohen, sessualità come forma di espressione e come necessaria accettazione della propria identità.

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