La tenevamo d’occhio da un po’, Matt Barker (il nostro corrispondente da Londra) le aveva fatto una bellissima intervista, ma nessuno stanotte ci avrebbe scommesso un solo dollaro e invece Esperanza ha vinto il Grammy Award 2011 nella categoria “Best New Artist” sbaragliando la concorrenza.
La gara per molti era un gioco a 2 fra Justin Bieber, giovanissimo nuovo idolo pop amato da milioni di teen ager, e il rapper Drake fresco di duetto con Rihanna, alcuni puntavano anche sulla meravigliosa Florence and the machine, ma la Spalding, inconsueta cantautrice e contrabassista ha lasciato tutti a bocca aperta.
Le sue parole nell’accettare il prestigioso premio sono state: “So che non ho molto tempo, così per prima cosa ringrazio l’Academy semplicemente per il fatto di avermi scelto per questa categoria. Vincere questo premio è davvero un onore che mi riempie il cuore, farò del mio meglio e mi impegnerò per continurare a comporre musica per tutti voi…”. Per conoscere un po’ meglio questa bravissima artista eccovi l’intervista pubblicata da Zoe Magazine. Michele Dotto
Mi sono sempre immaginata un po’ come un artista. Negli anni della scuola, ero appassionata di cover dei Blue Note e roba del genere, e mi atteggiavo con pose da artista, chiamando “micione” i miei compagni stupiti, e osando dire agli insegnanti in classe “io, di algebra, non ci ho mai capito un fico secco”. Eppure in quegli anni c’era una molla che non scattava; non riuscivo a dedicarmi anima e corpo a quel che oggi viene chiamato “jazz” in senso molto esteso; questa vasta serie, cioè, dei più disparati stili e approcci musicali, che vanno dalle più fedeli trascrizioni di Cole Porter nell’atmosfera trendy del piano bar di un albergo, fino ad arrivare alla sua parte maggiormente autentica e inquietante: dieci minuti di assolo di bongo e accordi tonali nei centri artistico-culturali caratteristici delle società post-industriali. Ogni tanto qualcuno si sintonizza sulla giusta lunghezza d’onda con me, e mi consiglia di riportare nella mia vita il jazz più autentico. I tempi dei nomignoli dati in classe ai compagni sono ormai un lontano ricodo, ma di algebra continuo a non capire nulla!».
Questa è Esperanza Spalding, una contrabbassista dal volto pulito, straordinariamente giovane (ventitré anni, che rispetto all’età media contrabbassisti è un’età molto sotto la media), nonché cantautrice di grande successo. Si è affermata in un ambiente – quello del jazz – notoriamente difficile e, al tempo stesso, si è fatta strada nel mondo della sperimentazione musicale. Il suo nuovo album “Esperanza” affonda le radici in un retroterra estremamente vario, che comprende l’educazione all’ascolto della musica classica, influenze sudamericane (l’ultimo album comprende anche canzoni in spagnolo e in portoghese) e un’adolescenza trascorsa a Portland, Oregon, con la radio a tutto volume. Sopravvissuta all’esperienza per certi versi atroce di “bambina prodigio”, Esperanza ora riesce a conciliare una carriera tra concerti live e sale d’incisione con la cattedra al Berklee College of Music.
Mi concede l’intervista al telefono da una stanza d’albergo di Barcellona, mentre fa colazione. Ha un tono entusiasta che ti coinvolge, persino quando rievoca i trascorsi scolastici con l’algebra e i compagni “micioni”.Che cosa ti ha portato a scegliere di studiare il contrabbasso? Non sembra certo il più facile degli strumenti.«Avevo l’abitudine di assentarmi spesso da scuola, e un giorno in cui “bigiavo”, mi sono diretta in… ecco, immaginiamo una stanza come questa da cui sto parlando, mi sono trovata accanto in modo del tutto casuale uno strumento simile a quello che suono ora. È stato in quel momento che ho provato il contrabbasso per la prima volta, non avevo mai pensato prima di suonarne uno.
Ed è stato meraviglioso, il suono era proprio straordinario. Be’, è nato tutto da lì». Però sembrerebbe una scelta davvero strana per la leader di una band. Non è uno strumento che di solito sul palco si tende a tenere dietro?«Sì, è vero. Mi piace il ruolo che svolge, un po’ quello di accompagnare il resto della band, insomma… è come la colla che tiene insieme tutti i componenti del gruppo. Di solito chi suona questo strumento non è sotto i riflettori; siamo lì a lavorare e a far andare avanti tutto.
Si nota subito, sai, quando qualcosa va storto, ma non si fa mai caso quando tutto fila liscio. Penso che tutto ciò abbia molto a che fare con il mio modo di essere. Per qualche strana ragione, la musica mi arriva così, in maniera del tutto naturale, riesco subito a suonarla con il mio gruppo e questo contribuisce ad amalgamare tutto l’insieme. Certo, influisce molto anche il fatto che sono la cantante della band e quindi devo essere la front leader. Per essere strano è strano. Di solito se suoni il contrabbasso non sono certo tuoi i fraseggi melodici principali, non hai un assolo. Devi sempre star lì a pensare a come arrangiare gli strumenti e quindi hai la tentazione di metterti un po’ “in vetrina”, di fare la front woman, ma nello stesso tempo devi essere consapevole del fatto che la gente tende a stancarsi di ascoltare così tanto uno strumento come il contrabbasso».
Quando hai capito di saper cantare? Hai sempre avuto questa consapevolezza? «Prima ho cominciato a suonare il contrabbasso. Sono stata invitata a suonarlo in una pop band, dovevo anche cantare tra le vocalist ma mi fu chiesto di cantare da solista. Ero tranquilla perché non mi consideravo una cantante prima di allora, e quindi non mi ero preoccupata di che effetto avrebbe potuto fare. Non ci ho mai pensato più di tanto, in realtà: è venuto fuori in maniera del tutto naturale. Ora le mie preoccupazioni principali riguardano l’organizzazione degli spettacoli, e di cosa debba fare sul palco una cantante con la “C” maiuscola». Tu sei anche una docente; come ci sei arrivata, e cosa comporta in relazione ai tuoi impegni e alla tua carriera di musicista?(Ride). «Veramente in questo periodo ho davvero troppo da fare, e quindi forse dovrò interrompere per un paio d’anni. Mi è stato chiesto d’insegnare da quando mi sono laureata, nel 2005. Bè, che dire? È bellissimo, è davvero fenomenale insegnare al college, proprio in quella fascia d’età in cui avviene un certo tipo di educazione all’ascolto.
Questo lavoro ti riporta molto alle tue “giuste dimensioni”, e quindi ti fa anche un po’ paura, perché devi registrare passo dopo passo i progressi che ti sei posta come obiettivo didattico e quelli che gli studenti effettivamente fanno. Ti dà anche tanta speranza che ci siano ancora persone tra le generazioni future che continuino, per così dire, a “portare la fiaccola”».Ma in realtà, il jazz non è proprio qualcosa che si possa insegnare, no?«La cosa più importante che puoi fare è il méntore. È davvero importante per i ragazzi avere qualcuno che ti fa da guida. E poi, da lì in poi, diventa un’esperienza personale.
Quello che conta è uscire, suonare e sperimentare le cose dal vivo, nel mondo reale».Quali sono state le principali influenze musicali negli anni della tua crescita? «Sono cresciuta ascoltando tante cose diverse, per la maggior parte della mia vita si è trattato di musica classica e di brani cosiddetti “vecchi”. Sì, tutta quella roba degli anni ’50, ’60 e ’70, che suonano alla radio: un periodo straordinario dal punto di vista musicale. Poi, quando sono diventata più grande, la mia musica era l’R&B, l’hip-hop e roba del genere, con in più il repertorio classico che all’epoca studiavo perché stavo imparando a suonare il violino. Una mescolanza di generi davvero interessante.
Poi, quando le mie energie si sono concentrate sullo studio del contrabbasso, mi sono appassionata al jazz ed alla musica brasiliana, o sudamericana in genere».Tu hai un nome spagnolo, l’influenza sudamericana nella musica che interpreti deriva da discendenze familiari?«Bè, mia madre è di origine ispanica, ma queste tradizioni non appartengono strettamente al bagaglio culturale della mia famiglia; sappiamo però che queste origini risalgono a qualche lontano antenato. Lo stesso vale per quanto riguarda il jazz.
La gente dà per scontato che le tue inclinazioni musicali siano in qualche modo genetiche, ma il jazz in origine mi era estraneo esattamente come lo era la musica sudamericana: non avevo per il jazz nessuna particolare inclinazione finché non ho iniziato a suonare il contrabbasso, ed è stato in quel momento che è diventato così importante come lo è ora». Pensi che l’ascolto delle stazioni radio che trasmettono musica di annata e della musica R&B negli anni di scuola abbia dato alla tua musica un approccio maggiormente di stampo pop rispetto ad alcuni dei musicisti jazz tuoi contemporanei?«Sono certamente appassionata di musica pop e non me ne vergogno. Anche Bob Dylan è pop. La parola purtroppo è diventata una specie di stereotipo, che in realtà di solito viene utilizzata nel significato di “annacquato”, ma in realtà “pop” significa “popolare”. Non ho alcuna difficoltà a scrivere canzoni che vanno alla radio, anzi lo trovo qualcosa di favoloso, è proprio quello che voglio».Cos’altro di nuovo dobbiamo aspettarci tra breve sulla scena musicale?«Vediamo… bè, sì. Elizabeth and the Catapult. È una band davvero tosta, per la quale il pubblico stravede. Gretchen Parlato, poi. Robert Glasper.
E poi… sì, come si chiama quello che ho visto di recente, e che mi ha dato davvero alla testa? Ce l’ho proprio qui, sulla punta della lingua. Ah sì, ecco. Mike Moreno e gli Aaron Parks. E poi, Anat Cohen. E’ pazzesco, tutti stanno facendo qualcosa. Non so, è come a New York, dove puoi uscire una sera, e se non ti piace quello che danno in un club puoi andare quattro isolati più avanti in un altro posto, e vedere qualcosa che ti piace. C’è sempre tanta di quella bella roba.
Ce n’è così tanta, che è davvero difficile scegliere cosa andare a vedere prima. Ma è davvero favoloso, perché i gruppi che sono oggi in circolazione saranno certamente ancora attivi tra dieci anni. Nel jazz, sai, ci vuole davvero tanto di quel tempo per crearsi uno spazio proprio».Avevi già girato l’Europa in tour prima? C’è una grande differenza di pubblico, d’attitudini, e via dicendo.«Sai, la gente che vive negli Stati Uniti, e in particolare a New York, ha diffcoltà ad ammettere di avere un certo gradimento per qualcosa. Io sono di Portland, la gente dalle mie parti è molto simpatica, e non ci vergogniamo di mostrare il nostro amore e la nostra felicità.
Se incontro qualcuno che mi è simpatico, ad esempio, io dico qualcosa del tipo “ehi, è favoloso”; i newyorkesi dicono solo “ah, si…bello”. Il pubblico in Europa sa bene come esternare quello che prova dentro, e quindi per un musicista è una grande fonte di ispirazione se la gente è coinvolta in quello che fai. Io spingo, spingo tanto ai miei concerti. E la gente, a questo, ci fa attenzione: ricordati, la gente fa davvero attenzione a quello che fai, il che a volte fa un po’ paura.
Alcuni dei miei gruppi preferiti, poi, sono europei».Quali sono i tuoi progetti per il futuro?«Ho in mente di incidere un nuovo disco e di trovare nuove cose da fare, nuovi orizzonti per la mia musica. Per ora sento fortemente che ogni spettacolo che faccio stia andando sempre meglio dei precedenti, e tra due o tre anni farò uno spettacolo davvero favoloso. Questi sono i mei progetti. Spero di essere presto anche in Italia, forse a febbraio dell’anno prossimo».
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